sabato 22 aprile 2023

Massimo CARRERA


Quando l’aereo di una qualsiasi trasferta decolla e i compagni tuffano le mani nei borsoni per estrarre mazzi di carte, giochini elettronici, videoregistratori portatili, riviste patinate, Walkman e ogni altro pretesto che faccia correre più veloce il tempo – scrive Maurizio Crosetti sul “Guerin Sportivo” del 4 dicembre 1991 – Massimo Carrera si mette comodo sul sedile e comincia a sfogliare un romanzo di Stefen King. Pochi secondi ed eccolo in un orrido mondo dove il sangue inonda la pagina e il terrore fa a gara col raccapriccio.
Se è vero che sono i piccoli segni a tracciare le grandi linee e che una persona si rivela soprattutto nei dettagli, i truculenti gusti letterari del terzino bianconero dovrebbero mettere in guardia gli attaccanti avversari. In attesa di sapere che cosa legge Pasquale Bruno, va detto che non esiste un’apparente affinità tra Carrera e il terrore. Letta l’ultima pagina e commentata con un sorriso da fotoromanzo (occhi azzurri, biondi capelli ricci), il difensore torna in sé. Cioè l’esatto contrario di quel che sfoglia. Un tipo tranquillo e rassicurante, arrivato tardi nel calcio che conta (esordio in A col Bari a venticinque anni) e deciso a gustare senza troppa enfasi e con misura la grande occasione professionale, nella Juve che pareva irraggiungibile.
– Carrera, è vero che lei non pensava di poter sfondare nel calcio?
«Diciamo che non ne ho mai fatto una malattia. Preferivo il fatalismo e l’attesa degli eventi. Finché qualcosa è scattato e ho cominciato a crederci».
– Quando si è verificata la svolta?
«All’Alessandria, nel 1984. Avevo alle spalle due campionati in Interregionale con la Pro Sesto e il Russi. La C2 mi diede l’opportunità di crescere e di essere segnalato a Catuzzi, che allora guidava il Pescara. Un altro salto di categoria, finalmente la Serie B».
– Però gli inizi non furono facili...
«È vero, giocavo poco e cominciavano a riaffiorare i dubbi. Ma Catuzzi mi disse che credeva in me e che dovevo stare tranquillo. Difatti mi portò a Bari, la città in cui mi sono realizzato e proposto come difensore di buon livello».
– Cinque stagioni in Puglia, il tempo che trascorreva: ha mai avuto la sensazione di essere un giocatore “di categoria”?
«No, anche se era molto difficile lasciare quella squadra. La società voleva tornare nella massima serie e quindi non cedeva gli elementi migliori. Ecco perché arrivai tardi in Serie A».
– Però ha recuperato in fretta: subito la Juve, e da titolare...
«Questo ha sorpreso anche me. Non pensavo che Trapattoni mi desse così presto la maglia numero due. Ora devo tenermela stretta...».
– Forse dipende dal fatto che lei può indossare senza problemi anche il cinque o il sei, il tre e magari il quattro. Da cosa deriva questo eclettismo?
«Dall’abitudine a ruoli diversi. Sono passato dalla zona all’uomo con facilità, e con la stessa naturalezza posso agire da libero o da stopper».
– Infatti Trapattoni la sta utilizzando sulla fascia destra...
«Va benissimo. Tra l’altro il mio modello è sempre stato Claudio Gentile, uno che indossava questa maglia bianconera numero due. Formidabile. Ero un suo tifoso».
– Si ritiene un difensore “cattivo”?
«Bisogna distinguere. Non ammetto che qualcuno possa far male con premeditazione, però il gioco del calcio prevede anche i colpi duri. Io quindi sono rude, non cattivo».
– A proposito: cosa pensa dell’affare-Bruno?
«Il mio collega ha sbagliato, però la punizione inflitta in primo grado è stata certamente eccessiva. Il rischio è quello delle etichette, e ormai Bruno è per tutti un colpevole a prescindere da quello che fa. Bisognerebbe ricordare che esistono anche attaccanti un po’ carognette, non solo difensori. Gente che usa i gomiti, com’è giusto purché non si esageri».
– Dicono che se uno commette un fallo con la maglia bianconera, l’arbitro è condizionato. Anzi: dicono che se Bruno nel derby avesse indossato la casacca che ora è sua, la sanzione sarebbe stata diversa.
«Non credo, o almeno finora non me ne sono accorto. Se picchio, mi puniscono. Com’è sempre accaduto».
– In pochi mesi lei è diventato un possibile azzurro: che effetto le fa?
«Penso di dover dimostrare ancora molto. Comunque la Nazionale è un obiettivo concreto, e forse la mia facilità di adattamento a ruoli diversi potrebbe aiutarmi a convincere Sacchi».
– Massimo Carrera privato: chi è?
«Uno tranquillo, che sta bene col mondo perché quando lavora si diverte e quando smette di lavorare trova una magnifica famiglia ad aspettarlo. Mia moglie Pinuccia l’ho conosciuta ad Alessandria e sposata a Bari. Abbiamo una bimba di un anno e mezzo, Francesca. Non potrei desiderare di più».
– La descrivono come una ex testa matta: cosa c’è di vero?
«Ben poco, anche se mi piace scherzare e stare in compagnia. Ho tanti amici. In squadra, soprattutto Luppi e Baggio».
– Ma come? Se dicono che Baggio sia un isolato... Anzi, per usare la definizione di Agnelli, un “indipendente”.
«Per me è un ragazzo divertentissimo, che ama lo scherzo e le battute. Ora è forse un po’ a disagio perché si sente circondato dalle critiche e sa di dover dare molto di più alla Juventus. Se lo lasciamo tranquillo ci riuscirà».
– Lei e Kohler formate una delle coppie difensive più solide del campionato. Che tipo è il tedesco?
«Si tratta dello stopper più forte del mondo. Ho molto da imparare, giocando accanto a lui. E poi mi piace perché sorride sempre, sdrammatizza ogni situazione. Infine, è un difensore deciso ma correttissimo».
– Ha un sogno professionale?
«Direi di no. C’è chi darebbe qualunque cosa per una vittoria piuttosto che un’altra, io preferisco fare un discorso professionale. Se di sogno vogliamo parlare, allora dico che spero di migliorare e di usare bene gli ultimi anni di calcio che mi restano. Lo ripeto, non credevo che questo gioco potesse diventare la mia professione, non lo pensavo neppure quando smisi di frequentare ragioneria dopo il terzo anno per dedicarmi totalmente al pallone. Invece è andata bene».
– Come si vive da juventini ma non da stelle?
«Benissimo, c’è più serenità e calma, forse si può lavorare meglio. Continuo a sentirmi uno dei tanti, anche con questa maglia addosso».

ENRICO VINCENTI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL DICEMBRE 2009
«Quando arrivavano i bianconeri a Bari, spuntavano un sacco di amici e conoscenti che mi chiedevano un biglietto per andare allo stadio, perché una partita come quella non potevi perderla. Lo stadio era sempre pieno all’inverosimile e l’attesa per la gara era sempre spasmodica. Mi sono reso conto dell’amore per la Juventus a Bari anche quando giocavo a Torino. Fuori dall’albergo o mentre il pullman andava allo stadio era pieno di tifosi bianconeri. I miei ex compagni di squadra già giorni prima mi chiedevano maglie dei giocatori della Juventus. Anche se all’epoca non c’erano ancora scritti sopra i nomi, facevano a gara per avere quella di Baggio o Vialli. Questo a testimonianza della passione che c’è per la Juventus anche in Puglia».
– E per un giocatore del Bari cosa significa giocare contro la Juventus?
«Significa molto. È una gara in cui hai modo di metterti in mostra: sai che spesso è un’impresa proibitiva per cui devi dare il massimo e anche qualcosa di più, ma al contempo non hai molto da perdere e puoi fare bella figura. Partita delicata quindi ma che può offrirti anche delle sorprese».
– Sorprese come quella della stagione 1990-91. La Juventus di Gigi Maifredi prende una sonora batosta dal Bari. Tu sei stato uno dei migliori in campo in quella partita.
«Ricordo che la Juventus di Maifredi fino a quella gara stava disputando un buon campionato. Noi giocammo benissimo, aggredendo dal primo minuto i bianconeri non concedendo mai spazio. Fu una vittoria meritata».
– Quello era una Bari grintoso ma anche molto tecnico.
«Sì, c’erano giocatori come Di Gennaro, Scarafoni, Monelli, Joao Paolo. E poi molti baresi, giocatori cresciuti nel vivaio del Bari e arrivati poi in prima squadra. Sono stati cinque anni molto belli. Abbiamo spesso giocato al di sopra delle nostre possibilità per portare a casa buoni piazzamenti. Dopo il primo posto in B nel 1988-89, anche in A siamo riusciti a fare bene».
– Nell’estate del ‘91, cioè l’anno dopo, il passaggio alla Juventus. Sulla panchina siede Giovanni Trapattoni.
«Era una squadra in costruzione. In quegli anni abbiamo posto le basi per i grandi risultati che avremmo poi ottenuto qualche anno dopo. Nel ‘91, quando sono arrivato, la Juventus si era piazzata così male da non poter neanche partecipare alle coppe, poi però, nel volgere di pochi anni, ancora con Trapattoni, abbiamo ottenuto buoni risultati. Secondi dietro al Milan in campionato il primo anno e, la stagione successiva, vittoria in Coppa Uefa. Una squadra forte anche se le mancava qualcosa per arrivare a dominare».
– Cosa ricordi della tua esperienza con il Trap?
«Grandissimo allenatore e grandissimo uomo. Aveva una passione incredibile che sapeva trasmettere a tutti, in particolare ai giovani. Finiti gli allenamenti spesso rimaneva lì per spiegarti alcuni movimenti, per migliorarti tecnicamente, negli stop, nei tiri. Un personaggio veramente carismatico».
– L’arrivo di Lippi cosa cambiò?
«Soprattutto la mentalità direi. È stato proprio quello, oltre all’arrivo di qualche giocatore, a farci fare il vero e proprio salto di qualità. Si entrava sempre in campo per vincere. Si correva per novanta minuti e si aveva sempre fame di vittorie. Eravamo partiti con un modulo, poi dopo la sconfitta a Foggia per 2-0 siamo passati al 4-3-3, più spregiudicato e aggressivo che ci ha permesso di vincere lo scudetto, la Coppa Italia e l’anno successivo la Champions League».
– Dotato di una grande duttilità tattica, Massimo è impiegato da Lippi in più occasioni per coprire ruoli diversi in difesa.
«Nel Bari giocavo soprattutto come terzino destro. Anche Lippi in alcune occasioni, a seconda degli impegni o delle emergenze, mi ha impiegato in quel ruolo. Ma giocavo soprattutto come centrale. Con Ferrara o con Kohler».
– Tifoso della Juventus sin da piccolo, cosa vuol dire poter indossare la maglia bianconera?
«È il coronamento di un sogno. Sin da: primi calci che tiri al pallone sogni di diventare professionista e di indossare quella maglia. Un sogno difficile da realizzare, ma proprio per questa ragione, ancora più emozionante quando si avvera».

Nelle stagioni successive, arrivano Vierchowod e Montero e Carrera parte quasi sempre dalla panchina ma, tutte le volte che è chiamato in causa, offre ottime prestazioni.
Nell’estate del ‘96, è ceduto all’Atalanta, dopo aver totalizzato 166 presenze con un gol e un palmarès di tutto rispetto: uno scudetto, una Coppa Italia, una Coppa Campioni, una Coppa Uefa e una Supercoppa Europea.
Ritorna alla Juve nel 2009, nelle vesti di coordinatore tecnico del Settore Giovanile. Ma nella stagione 2012-13 siede sulla panchina della Prima Squadra, a causa della squalifica di Conte e del suo vice Alessio. Ottiene ben sette vittorie (fra cui quella a Pechino contro il Napoli valevole per la Supercoppa Italiana) e tre pareggi (due dei quali a Londra contro il Chelsea e in casa contro lo Shakhtar nel girone di Coppa dei Campioni).
A causa delle dimissioni di Conte dalla Juventus, il 16 luglio 2014 è esonerato dal club bianconero insieme al resto dello staff del tecnico salentino, e il successivo 19 agosto, con la firma di Conte come commissario tecnico della nazionale italiana, Carrera entra a far parte dello staff azzurro in qualità di assistente.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

attualmente carrera anni 44 gioca ancora in C2 nella Pro vercelli

Anonimo ha detto...

Verissimo...
Massimo Carrera gioca ancora tra i prof, a Vercelli.
Tanti auguri e complimenti a un vero bianconero! Lo ricordo con piacere alla manifestazione del 1° Luglio 2006...

Stefano ha detto...

grazie mille per i vostri commenti; provvederò ad aggiornare la scheda.