giovedì 1 febbraio 2024

Franco CAUSIO


C’è un ricordo che Franco Causio si porterà sempre: lo scopone con Pertini sull’aereo che riportava a casa l’Italia Campione del Mondo del 1982: «Indelebile. Io ero in coppia con Bearzot, il presidente con Zoff. Io feci una furbata: calai il sette, pur avendone uno solo. Pertini lo lasciò passare e Bearzot prese il “Settebello”. Abbiamo vinto così quella partita». C’è tutto il repertorio di Causio: il sette, la finta, l’avversario disorientato. Ma stavolta non era un terzino, era il Presidente della Repubblica. Che si arrabbiò moltissimo.
Ha il merito di fare del calcio e del suo ruolo di ala, un’arte, un modo di esprimersi; irresistibile con la palla al piede, inventa uno stile di gioco, che in molti hanno cercato di copiare e che è rimasto impresso nella mente di molti tifosi. Il suo miglior periodo è senza dubbio legato alla Juventus degli anni Settanta e alla Nazionale di Enzo Bearzot. Il suo esordio avviene nella stagione 1964-65 nella squadra della sua città, il Lecce, che in quell’anno militava in Serie C. L’anno successivo passa alla Sambenedettese sempre in Serie C.
Nel 1966 approda nella Juventus di Heriberto Herrera che lo fa esordire in Serie A, appena diciannovenne, contro il Mantova, il 21 gennaio 1968: «Avevo solo diciassette anni e non posso negare che l’impatto fu molto duro. Io ero un ragazzo del Sud e la Torino di fine anni Sessanta era una città difficile. Vivevamo nel pensionato di Via Susa e non è, francamente, un bel ricordo. Ci rimasi solo un anno, perché, dopo aver esordito nella Juventus, andai a Reggio Calabria».
Successivamente, viene mandato al Palermo, per consentirgli di fare esperienza e maturare. Nella squadra rosanero, che milita in Serie A, il giovane Causio si fa conoscere a livello nazionale: «Avevo vent’anni quando sono arrivato a Palermo. Ero di proprietà della Juventus, che mi aveva mandato la stagione precedente alla Reggina in B. L’impatto con la città è stato bello, ho ancora tanti amici e per me è stato importante l’incontro con Di Bella. Era una persona eccezionale. Mi ha insegnato a giocare per la squadra. “Ricordati – mi diceva – non bisogna giocare per te stesso, ma per gli altri: sei bravissimo e se lo capirai, diventerai un grande”. E mi ha anche insegnato com’è la vita, che non è soltanto quella che si vive su un campo di calcio».
Ritornato a Torino nel 1970, Franco Causio, non trova ancora un posto da titolare, ma in quella stagione riesce comunque a farsi notare segnando sei reti. Il giorno del raduno è il 24 luglio 1970. Causio è lì, capelli abbondanti, occhiate basse quasi torve: «Sono venuto per giocare. A Palermo ero titolare, la stessa cosa sarà nella Juventus. Sono il più forte».
Ma è nella stagione successiva che, sotto la guida di Vycpálek, Causio trova lo spazio che merita giocando undici campionati con la maglia bianconera e vincendo sei scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa: «L’inizio non fu dei più semplici, perché non credevano molto in me e, se sono rimasto alla Juventus, devo ringraziare Armando Picchi. Fu lui a farmi giocare dieci minuti contro il Milan così che, in base al regolamento, non potevo più essere ceduto. Il mio, insomma, è stato un successo fortemente cercato, voluto».
Professionista esemplare e molto attaccato al proprio lavoro, lo testimonia la carriera lunghissima, ha convissuto a lungo con il luogo comune, falsissimo come tutte le frasi fatte, di genio e sregolatezza. Viceversa, è sempre stato un serio lavoratore (anche in allenamento) anche se, è inutile negarlo, ha sempre cercato la giocata vincente, il guizzo per decidere l’incontro rifiutando, quasi sdegnoso, il passaggino banale, il tocco laterale per nascondersi: «Alla Juventus c’erano regole ferree: in campo non si gesticolava, non si protestava con gli arbitri. E se sbagliavi Boniperti ti toccava nel portafoglio. Non temeva affatto dei voti riportati dai giornali. Il lunedì ti incontrava e ti diceva: “Ti hanno dato sette, ma per me ha giocato da cinque”».
Nella stagione 1983-84 passa all’Udinese, l’anno seguente all’Inter poi una parentesi al Lecce e nella Triestina, dove chiude la carriera a trentanove anni suonati: «La Juventus pensava al futuro che non poteva più essere di Causio, ma di Marocchino, di Fanna che scalpitavano tra i rincalzi. Peccato, perché a Udine ritrovai l’estro delle annate migliori e perché ero tutt’altro che sul viale del tramonto, tanto è vero che giocai ancora otto anni! Mi dispiace, perché fossi rimasto anche solo un anno, avrei giocato anch’io nella Juventus dei Platini e dei Boniek».
Impossibile sfuggire all’Avvocato Agnelli: «Ci sono state le telefonate alle sei del mattino, gli arrivi in elicottero a Villar Perosa. E invitava Boniperti a farmi tagliare i capelli e Giampiero rispondeva: “Lo lasci stare”. L’Avvocato sapeva veramente tutto, lo avevo soprannominato l’Enciclopedia. Una sera mi ha invitato a cena a casa sua, aveva una cineteca immensa. Abbiamo visto “Il profeta del goal”, il film realizzato da Sandro Ciotti, un altro grande, su Cruijff. E, dell’olandese, Agnelli sapeva tutto».
Causio esordisce in Nazionale il 29 aprile 1972, a Milano, in Italia-Belgio 0-0, ma il vero esordio avverrà due mesi dopo, il 17 maggio a Bucarest, Romania-Italia. Zoff; Spinosi e Marchetti; Agroppi, Rosato e Burgnich; Causio, Mazzola, Boninsegna, Capello e Prati. Finisce 3-3 e Causio segna il goal di un illusorio 3-2. Con la casacca azzurra disputa sessantatré incontri e realizza sei goal. Partecipa al Mondiale del 1974 giocando poco, ma in seguito con Bernardini prima e Bearzot poi diventa per molti anni padrone assoluto della maglia azzurra numero sette. Gioca in maniera ottima il Mondiale argentino del 1978 in cui segna anche un goal nella finalina contro il Brasile. Entra a far parte, a dieci anni dal debutto in Nazionale, all’età di trentatré anni, anche della rosa che conquistò il Mundial 1982.
Chiude la carriera in azzurro il 12 febbraio 1983, dopo undici anni di servizio, in Cipro-Italia 1-1: «La Nazionale che uscì al primo turno in Germania, nel 1974, era forte. Solo che si parlava troppo, riunioni su riunioni, del dualismo Mazzola-Rivera. In quell’occasione ho apprezzato Gianni Rivera soprattutto come uomo. In Argentina, nel 1978, abbiamo giocato il calcio più bello di tutto il Mondiale. Non siamo andati in finale perché, contro l’Olanda, eravamo convinti di aver già vinto dopo aver chiuso 1-0 il primo tempo. Bearzot mi sostituì con Sala per farmi riposare in vista della finale. Invece, gli olandesi fecero due goal e addio finale. A Bearzot voglio un bene dell’anima e gliene avrei voluto, anche se non mi avesse portato con la Nazionale in Spagna nel 1982. Conosco il grande Vecio, come lo chiamo con affetto, da quando avevo sedici anni. Lui era allenatore in seconda del Torino ed io feci un provino con i granata. Poi le Nazionali dall’Under 20 a quella maggiore».

VLADIMIRO CAMINITI
Quante volte abbiamo convenuto sul calcio come il gioco più perverso e più meraviglioso del mondo! Quante volte l’ouverture della forza del destino sembra creata per la parabola infinita raccontata dal pallone. Causio è stato un grande, un grandissimo fantasista. In lui rivive il barocco leccese, quella forma di pittura che evoca altezze e squisitezze del pensiero. La Puglia è tanta parte del paese, quando si parla di sport. Un certo Pietruzzu Mennea ha annichilito le tesi longobardiche sul Sud negato alle conquiste dello sport. Da Costantino a Causio si dirama tutta la verità che spiriti gretti non hanno saputo leggere. Causio inizia la sua favola a San Benedetto, su un campo verde sfiorato dal mare, tra gli schiamazzi di una splendida gioventù. Alla Juventus lo ha segnalato uno dei massimi crani tecnici di sempre, l’imperturbabile segreto dolcissimo Viri Rosetta. La Juventus lo ingaggia e lo manda a farsi le ossa a Reggio Calabria e Palermo. Quando rientra dal prestito ai rosanero, nel luglio 1970, Causio sa già il suo futuro. Imbatte nel vostro scrivagante, nell’antistadio, il giorno del raduno e della partenza per Villar Perosa, e gli fa: «Scrivilo, io sono il più forte, non posso che giocare titolare». Naturale che lo scrivo, e nemmeno rido sotto i baffi, perché di fatto alla Favorita Causio aveva sfavillato in quel campionato di A 1969-70 e tutti (Boniperti in testa) scommettono sul suo talento.
Nel campionato 1970-71, Causio entra in conflitto con il povero sventurato Picchi. Del resto, con chi non conflittuerà il nostro leccese gradasso? Giocherà venti partite, andando a segno cinque volte; a tratti, a sprazzi, il suo talento sarà evidenziato in una squadra che si sta rifacendo un’ossatura e un avvenire. L’avvenire della Juve bonipertiana, l’avvenire di Causio. Una volta, Boniperti dichiarerà che per essere grande, grandissimo, a Causio è mancata la precipua dote dello stoccatore. Ha insomma girato troppo al largo da quella che Heriberto nel suo italiota definì una volta “bocca del lupo”. Nel calcio, parabola della vita, tot capita tot sententia, ma attenzione, il giudizio di Boniperti è importante. Io prescindo da questo giudizio dell’amico Giampiero, e continuo a ritenere Causio il grande grandissimo stornellatore che è stato, e sufficienti tutti i goal che ha segnato.
Causio è stato soprattutto un’ala. Un’ala con molto di più di Muccinelli, ma anche di Biavati, di Claudio Sala, di Costantino. Un’ala antica e nuova, capace di far tutto. Un’ala, dopo gli anni formativi e degli sprechi esosi di immagini, dal talento lucidato a nuovo, dallo scatto progressivo e la finta irresistibile, come il cross di acutissima percezione. Quanti goal di Bettega si debbono al cross spaziante, smarcante di Causio? Io l’ho soprannominato Brazil. Nella solita opera informativa leggo che l’avrebbero fatto i tifosi della Filadelfia. Per quelli resta il Barone, peraltro apposizione geniale. Il barone del calcio, ma un barone arricchito dai piedi. I piedi fastosi, barocchi di Causio. La sua scelta del tempo, la sua capacità di rovesciare tutto il fronte del gioco con una genialità tattica unica, la sua sensibilità di uomo portato alle cose belle (e alle donne belle), tutto me lo farà prediligere. Il fondo del carattere ingenuo e generoso, da vero pugliese. Non importa se dovunque vada, i camerieri degli alberghi lo descrivono come superbo e intrattabile. Causio ha qualche complesso freudiano, una ritrosia personale che lo rende difficile, ma a saperlo capire ci si guadagna. È l’operazione che fa Trapattoni, quando giovane allenatore subentra alla Juventus e lo trova asso già affermato. Parola non riusciva a domarlo. Occorre tanta fermezza con Causio. Anche e specialmente perché la domenica renda come può e sa. L’ago della bussola juventina spesso è lui. Furino riconosce in questo leccese gradasso l’unico giocatore capace di fare la differenza, me lo dice più volte; nemmeno con Zoff e Bettega sarà così ricco di riconoscimenti. E Furino è l’anima plebea, il cuore nobile della squadra.
Il miglior Causio lo vedo in azione in Argentina. Finché i miei occhi non si chiuderanno, avrò ricordi consolatori per le rughe e le stanchezze; Verdi, Bellini, Vivaldi, Beethoven, Mozart; i miei classici: Tolstoj, Čechov, Maupassant, Balzac, Verga; i miei campioni, Causio tra questi. Ognuno di noi si porta addosso un carico di mestizie personali, a me ne sono toccate tante. Appena apro gli occhi, ogni giorno. Il calcio mi consola e mi rallieta. L’Argentina è tantissime cose: i lustrascarpe dalle rughe viziose, con la camicia di seta, seduti davanti ai negozi di lusso delle avenidas, le strade sbattute da una pioggia impietosa che da un momento all’altro restituisce i cieli salotti dell’azzurro; una città giovane come Mar del Plata, o una metropoli infinita come Buenos Aires. L’Argentina è tantissime cose. Le cose degli emigranti, queste bandiere che nello stadio dal prato appena sbocciato con il suo verde tenero, essi stringono sgolandosi con le lacrime agli occhi. Io ho conosciuto più Italia in Argentina nel 1978, di quanta non ne avessi conosciuta da adulto nel paese della partitocrazia. L’Italia della nostalgia assiste Causio nei suoi assoli stupendi, nelle sue fantasie inimitabili. L’Italia finisce quarta, ma lui ha saputo raccontare agli emigrati la patria lontana meglio del più squisito musicista o del più geniale romanziere. Quando un calciatore diventa messaggero di civiltà!
Al termine della stagione 1980-81, che è stata ancora scudettata, Causio arriva logoro di gloria, ma anche di polemiche. C’è l’astro contingente Domenico Marocchino e con Trap l’intesa non è più perfetta. È finito in panchina proprio lui, l’eccelso fantasista. Nel destino delle cose umane, è di nascere e di tramontare. Per molti, forse anche per il Trap, Causio ha chiuso il suo ciclo, è finito come campione. E così è ceduto all’Udinese. Qualcuno, anche il mio bravissimo Trap, ha visto male. Marocchino non manterrà certe promesse, Causio giocherà tre campionati splendidi nell’Udinese, prima di iniziare un’altra carriera all’Inter, a Lecce, a Trieste. Soltanto un’ala? Il ruolo di ala ammodernatosi nei tempi del calcio della tivù e delle strategie applicate; un grande, un grandissimo artista.

NICOLA CALZARETTA, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL GENNAIO 2012
Franco Causio, il Barone. Prodotto nobile del Salento, una terra fertile di talenti. Ha poco più di sedici anni quando Luciano Moggi, che lavora per il settore giovanile bianconero, lo adocchia durante un provino. La leggenda narra che trascorsi i primi dieci minuti di partitella, il giovanissimo Causio, dopo l’ennesima giocata brasiliana, fu invitato a fare la doccia. Si racconta che il ragazzo, caratterino pepato, non la prese bene, pensando a una bocciatura. Tutt’altro. L’uscita anticipata era per togliere il gioiello dalla vista di altri occhi. Parte l’avventura torinese. È il 1966, Causio si allena quasi sempre con la Prima Squadra, divide la camera con Tino Castano, il capitano. Heriberto Herrera lo scruta, ma non lo ritiene ancora pronto per il debutto. Intanto la Juventus vince lo scudetto e l’anno seguente c’è anche la Coppa dei Campioni. Causio, classe 1949, attende con pazienza e umiltà l’occasione. Che arriva, all’improvviso, il 21 gennaio 1968. Ricorda bene quel momento? «Eravamo in ritiro a Mantova, domenica mattina. Stavo bevendo un caffè, quando arriva Sarroglia, il massaggiatore, che mi dice di salire su in camera dal mister, senza aggiungere altro».
Lei immaginava il motivo di quella chiamata? «No. Corsi subito da lui e bussai alla porta. “Entra ragasso”, mi disse. La camera era in penombra, le finestre socchiuse. Vidi solo la sagoma di Heriberto».
Scena tenebrosa, preoccupato? «Un po’ di fifa ce l’avevo. Heriberto era un tipo tosto, molto severo. Durante le riunioni si doveva alzare la mano per parlare. Avevamo timore di lui. Era un bravissimo preparatore atletico, ma peccava dal punto di vista della comunicazione e questo non gli ha consentito di farsi capire dai giocatori. In certe occasioni ci voleva il semaforo in campo».
Ma è vero che aveva la fissa per la bilancia? «Era attentissimo all’alimentazione. Ci pesava tutti i giorni, prima e dopo l’allenamento. E se non avevi perso qualcosa, ti multava. Il povero Erminio Favalli era quello più tartassato».
Torniamo a quella domenica mattina. «Entrai nella stanza e gli dissi che ero lì perché me lo aveva detto il massaggiatore. E lui, senza scomporsi e con il solito intercalare spagnoleggiante, mi fa: “Luis (Del Sol, ndr) è indisponibile, tocca a lei. Oggi penso che sia il suo momento”. Andò così».
E lei? «Ricordo che balbettai qualcosa, tipo: che significa? E lui: “Se la sente oggi?”. Come no, risposi. “La fascia destra, me la deve consumare”, aggiunse».
A quel punto il messaggio era chiaro. «Chiarissimo. Tornai giù nella hall e feci festa con i compagni».
Cosa le è rimasto di quella prima volta? «La riunione tecnica prima della gara e c’ero anch’io, perché a quei tempi le riserve non partecipavano alla preparazione della partita. Poi ricordo la maglia, anzi la camiciona, con lo scudetto sul petto. Avevo il numero otto, ma in realtà giocai all’ala destra. Feci una buona gara, anche se la partita finì 0-0. In campo mi aiutarono tutti, in particolar modo Cinesinho. Il Cina che purtroppo oggi non c’è più, è stato un grande maestro per me».
C’è qualcun altro oltre a Cinesinho che le ha fatto da fratello maggiore? «Tutti, da Bercellino a Salvadore, da Del Sol a Tino Castano. Lui mi ha insegnato cosa vuol dire giocare per la Juventus, lo stile e l’educazione, non solo in campo, ma soprattutto fuori. E poi Haller, un fuoriclasse: con i piedi giocava a flipper. Da lui ho imparato qualche utile trucchetto».

NICOLA CALZARETTA, DAL “GS” DEL MARZO 2014
Oggi, di ritorno dal Brasile, terra di sua moglie Andreia, festeggia i sessantacinque anni con il “Guerino”. Sorridente, disponibile, confidenziale. Si commuove quando parla del babbo, di Armando Picchi e di Gianluigi Savoldi. Amareggiato solo quando ripensa a certi trattamenti ricevuti nel post carriera («La riconoscenza nel calcio non esiste»). Ma lui è uomo di campo, capace di superare in dribbling qualunque avversario. Causio è un uomo felice. Tre figli: Barbara e Francesco nati dal primo matrimonio e Gianfranco, ventuno anni, calciatore nel Tribase, avuto da Andreia. Commentatore per SKY, non ha più il capello voluminoso anni Settanta, né i baffoni. Ma in fatto di eleganza, non lo batte nessuno. Non si è Barone per caso, giusto? «È un soprannome al quale sono molto legato. Me lo dette il giornalista Fulvio Cinti de “La Stampa” nei miei primi anni a Torino, perché mi piaceva vestire in giacca e cravatta e per come mi muovevo in campo».
Vladimiro Caminiti, invece, ti chiamava Brazil. «Lui fotografò così il mio modo di giocare, per la fantasia che mi portava a fare dei numeri a effetto e spettacolari. Ma sempre al servizio della squadra».
Doti naturali o acquisite con il lavoro? «La base era buona, affinata dalle tante partite fatte per strada. Spazi stretti, condizioni di gioco al limite. Poi ci sono stati anche gli insegnamenti e i segreti rubati ad alcuni campioni, tra cui Helmut Haller».
La tua storia parte da Lecce. «Lecce è la mia città e la mia prima squadra. Devo moltissimo ad Attilio Adamo, un maestro. Lui mi ha forgiato da ragazzino e mi ha fatto fare il primo salto di qualità».
Era il tuo sogno quello di fare il calciatore? «Come per tutti i ragazzi. Sono stato fortunato perché ho avuto l’appoggio della famiglia. Mio padre Oronzo, che si faceva un bel cesto con il suo deposito di bombole di gas, mi ha sempre incoraggiato. Non si navigava nell’oro, io non volevo pesare troppo sul bilancio. Così ho fatto anche il garzone di bottega da un barbiere».
Possiamo dire che la ruota ha iniziato a girare presto e bene grazie a uno sciopero? «È vero. Verso la fine del campionato 1964-65 i giocatori del Lecce si rifiutarono di giocare perché non venivano pagati. Quindi buttarono dentro noi del vivaio. Io avevo sedici anni. Feci tre partite, una di queste contro la Sambenedettese allenata dall’ex Nazionale Alberto Eliani. Gli piacqui e mi volle con sé l’anno dopo. A San Benedetto mi accompagnò il mio maestro Adamo. La sua vicinanza fu fondamentale. La Samb, comunque, mi trattò bene. Dei soldi che prendevo, metà li mandavo in famiglia. Solo anni dopo seppi che mio padre metteva i soldi in un libretto intestato a me».
Nelle Marche ci stai un anno. Alla fine della stagione c’è subito la Juve: il sogno si avvera. «A vederla così sembra che la strada sia stata lineare, invece in quell’anno ne sono successe di tutti i colori. La parola magica era: provini. Ogni volta erano speranze che si accendevano e delusioni che ti colpivano. Su di me c’erano molte attenzioni, oltretutto facevo parte delle Nazionali giovanili ed ero spesso a Coverciano, all’epoca una vetrina privilegiata. Normale che le grandi squadre volessero fare il colpo e così, quasi ogni settimana, c’era qualche provino da fare. Ne ho fatti tanti, davvero. Per il Mantova, l’Inter, il Torino. Quella è stata l’esperienza più forte anche perché sono stato per un po’ a Torino, mi allenavo al Filadelfia, si usavano gli spogliatoi del Grande Torino. Fu lì che incontrai per la prima volta Enzo Bearzot, allora vice di Nereo Rocco. Sembrava fatta, avevo già scelto la camera nel pensionato, dove sarei stato l’anno dopo».
E invece? «“No gà el fisico”, così disse qualcuno. A Bearzot, anni dopo, glielo rinfacciai. E lui un giorno mi fece vedere le relazioni che aveva scritto. Tutte ottime. La bocciatura venne dall’alto».
Più arrabbiato che dispiaciuto? «Tutte e due le cose. Ricordo che dopo Samb-Bari, in cui feci anche il goal partita, Eliani mi disse di andare a Forlì a fare una prova per la Juve. Ma io non ne avevo nessuna intenzione».
Poi, però, ci hai ripensato. «Sì. Però anche lì mi fecero saltare i nervi. Inizia la partita, nei primi minuti faccio quello che mi pare e segno due o tre goal. All’improvviso mi dicono di uscire. Non capisco e mi si chiude la vena. Presi Eliani e gli dissi che non ne potevo più e che di provini non ne avrei più fatti. In estate arriva un telegramma a casa mia. Viene da Torino. Lì per li penso ai granata, magari si sono ricreduti. Lo apro e c’è scritto di presentarsi in Galleria San Federico, sede della Juventus. C’è voluto un bel po’ perché riuscissi a capire quello che mi stava succedendo».
Tenevi alla Juve? «No. Tifavo per il Milan, e in particolar modo per Dino Sani, un regista di una classe immensa. In più avevo un debole per Jair, l’ala destra dell’Inter».
Estate 1966: sei un giocatore della Juventus. «Contento, molto. Mi accolsero il presidente Catella e Giordanetti. Mi misero in camera con Tino Castano. E poi guardavo Leoncini, Del Sol, Favalli e Cinesinho, gran giocatore. Ero come un bimbo alle giostre. Non avevo ancora diciotto anni, ma mi allenavo sempre con la Prima Squadra».
E il 21 gennaio 1968 arriva l’esordio in A contro il Mantova. Era nei programmi? «No, quello di Guido Onor, che debuttò con me, sì. Io non sapevo nulla. Eravamo in ritiro a Mantova, era domenica mattina e stavo giocando a flipper. All’improvviso arriva Sarroglia, il massaggiatore che mi dice di salire subito in camera dal mister. Non aggiunge altro».
Perché, dopo quell’esordio, la Juve non ti ha confermato? «Era giusto così. Dovevo farmi le ossa. Mi mandarono prima alla Reggina in Serie B e poi al Palermo in A. Trovai due famiglie, con legami che durano ancora oggi. A Reggio Calabria, Armando Segato mi fece crescere molto sul piano tecnico e tattico. In Sicilia, Carmelo Di Bella mi forgiò caratterialmente».
Ma la Juventus credeva in te o no? «Penso di sì, anche se negli accordi del prestito al Palermo, il diritto di riscatto fu riservato ai siciliani. Mi ricordo sempre la partita contro la Juve. Feci impazzire Cuccureddu. Alla fine venne da me Boniperti, già dirigente ma non ancora presidente. Mi disse: “Ma tu sei nostro, lo sai?”. “Sì, ma avete lasciato al Palermo la facoltà di riscattare il mio cartellino”».
La storia racconta che alla fine di quel campionato, comunque torni a Torino. «Estate 1970. La Juventus completa la rivoluzione iniziata un paio di anni prima con Furino, Morini, Cuccureddu e Anastasi. Con me tornarono o arrivarono molti altri ventenni, tra cui Bettega, Spinosi, Novellini, Landini. C’era anche Titti Savoldi, tecnicamente era il più bravo di tutti. È morto qualche anno fa dopo aver sofferto tanto. Mi è dispiaciuto: avrei voluto salutarlo».
Una “Giovane Signora”, affidata a un allenatore giovanissimo: Armando Picchi, appena trentacinque anni. «Devo molto a Picchi. Di fatto mi tolse dal mercato, nell’ottobre 1970, facendomi giocare nel secondo tempo contro il Milan alla quarta giornata. All’epoca le regole non consentivano di essere trasferiti nella stessa serie in caso di presenze in campionato. In quella prima Juventus gli spazi erano intasati. C’era Haller. E poi Capello, Marchetti. Picchi cercava di trovare il giusto equilibrio».
Si può dire che avesse un debole per te? «Sicuramente. Mi chiamava “maestro” e diceva: “Nella mia vita ho chiamato così solo due giocatori: Mario Corso e Franco Causio”. Dopo la trasferta in Ungheria contro il Pécsi Dózsa, in cui feci il goal decisivo, ero convintissimo di giocare la successiva partita in campionato. E invece rimasi in panchina ma Picchi disse a chi scendeva in campo che gli rodeva tenermi fuori».
Il destino è stato avverso con Armando Picchi. «Provo ancora un dolore lacerante. Quando morì, lo avremmo voluto salutare con la conquista della Coppa delle Fiere, ma nella doppia finale con il Leeds ci andò male. Di Armandino mi piace ricordare la gaffe che facemmo uno dei primi giorni di ritiro a Villar Perosa. Eravamo sul balcone dell’albergo. A un certo punto arrivò una Jaguar. Scese una ragazza stupenda, bellissima. Puoi immaginare i commenti. Poi, all’improvviso, da sotto la terrazza, comparve il mister: “O’ buhaioli, è la mi’ moglje!”. La figuraccia era oramai fatta, ma con quella battuta ci si fece tutti una gran risata».
La malattia di Picchi porta a Čestmír Vycpálek. «Cesto era una brava persona, grande intenditore di pallone. Ma la vera guida della Juve era Boniperti».
Che nell’estate del 1971 viene nominato presidente. «Il ruolo naturale per lui, grandissimo calciatore, juventino doc e dirigente formidabile. Era il capo carismatico del pianeta Juventus. Presenza costante, interveniva spesso, sia nei momenti belli che in quelli di difficoltà. Con noi giocatori sapeva usare il bastone e la carota, ma ci difendeva sempre. E poi, anche se c’era qualche dissidio interno, non usciva mai niente».
Era lo stile-Juve? «Non era solo giacca e cravatta e capelli corti. Ma anche e soprattutto educazione. Fuori e dentro il campo. Chi la domenica prendeva un giallo perché protestava con l’arbitro, veniva multato. Con lui non si sgarrava, e il giorno dei reingaggi, si presentava con le foto degli avversari che ci avevano battuti. Boniperti era il perfetto uomo di azione dell’Avvocato».
Nella tua personale videoteca, qual è l’immagine più significativa della tua carriera? «Credo Juventus-Inter del 23 aprile 1972. Mia tripletta e 3-0 sui neroazzurri. Mancavano tre giornate alla fine e con i due punti la Juve superò il Torino al primo posto in classifica. Subito dopo arrivò la convocazione in Nazionale e il 29 aprile, contro il Belgio, feci il debutto con la maglia azzurra sostituendo nel secondo tempo Domenghini, un altro dei miei giocatori di riferimento. Mancò la ciliegina del goal; che sfiorai soltanto. Avevo ventitré anni. Nella Juve ero titolare. Dopo il debutto entrai nel giro della Nazionale. Feci anche il Mondiale in Germania. Poi, però, Fulvio Bernardini, si dimenticò di me. La cosa mi faceva strano. Era un periodo in cui il commissario tecnico chiamava chiunque per rifondare la Nazionale. Mi richiamò, spinto da Bearzot, che nel frattempo lo aveva affiancato. Dovette intervenire Boniperti per convincermi ad accettare, perché non volevo saperne».
Ti dipingevano come arrogante e presuntuoso. «Nel mio lavoro volevo essere il numero uno. E lo sono stato. Ho lavorato sempre al massimo, ho dato l’esempio, nessun allenatore mi ha mai rimproverato per scarso impegno. Avevo un bel carattere, sì. D’altra parte, se non lo avessi avuto, sarebbe stato un casino. Il mio motto è sempre stato: farsi rispettare, rispettando. Il mondo del calcio è un mondo di paraculi».
Tu hai mai fatto il paraculo? «Talvolta ho dovuto fare il fesso per convenienza. Una volta, alla Juve, tornammo tardi in ritiro. C’era Italo Allodi, come dirigente bianconero. Mi volevano mandare via. Allora, davanti alle minacce di Allodi, feci il finto pentito, mi scesero anche delle lacrime. Ma dentro di me lo stavo mandando abbondantemente a quel paese».
E in campo hai mai fatto finta? «Le finte le facevo per saltare l’avversario. No, in campo non puoi fingere. E poi alla Juve si doveva vincere, altro che storie».
E difatti nel 1972 arriva già il primo scudetto. «È quello cui sono rimasto più legato. Una vittoria anche di Armando Picchi. Un grande traguardo che ci aprì le porte alla Coppa dei Campioni».
Troppo forte l’Ajax che vi batté in finale nel 1973? «Quello era uno squadrone, senza dubbio. Di qua ci furono un po’ di errori, non ultimo che fino a mezzora prima della partita, non si sapeva ancora chi avrebbe giocato. Nella stanza dei bottoni c’erano molti dubbi».
Delusione? «Parecchia, ma anche rabbia. Con la Coppa dei Campioni in mano, avrei fatto mille volte il giro del campo, mentre loro quasi se ne fregavano. La tenevano in mano, così, come se fosse una coppetta qualsiasi».
Ma intanto stava nascendo il mito della Juve degli anni Settanta, cinque scudetti in dieci anni. «Vero. Dopo la rivoluzione del 1970, Boniperti ogni anno inseriva uno o due giovani di qualità, tutti potenziali campioni: Gentile, Scirea, Tardelli, Cabrini. Senza contare che nel 1973 erano arrivati Zoff e Altafini».
Che cosa aveva di speciale quella Juve? «Eravamo tutti dei leader nel proprio ruolo e ciascuno metteva a disposizione della squadra il suo talento. Il gruppo era solido. C’erano le cene al ristorante Due Lampioni o a casa di qualcuno di noi. C’era Zoff capo barzellettiere e sul pullman si ascoltavano le canzoni di Lucio Battisti. La più gettonata, “Il mio canto libero”».
Quanto ha inciso l’arrivo di Trapattoni? «Avevamo appena perso lo scudetto del 1976. Carlo Parola, una cara persona, juventino vero, si fece da parte e Boniperti replicò l’operazione Picchi offrendo la panchina a Trapattoni, che aveva trentasette anni».
E l’estate del 1976 e ti presenti in ritiro con due baffoni da cow-boy. Motivo? «Al di là che erano di moda, un omaggio a mio padre».
Non è l’unica novità: il Trap ti dà il numero sette. Ala destra, è questo il tuo ruolo? «Ho sempre giocato in quella zona, anche come mezzala, specie nei primi anni alla Juve quando c’era Haller, un tedesco-napoletano, con la paura dell’aereo e della moglie. Tecnicamente era un fenomeno, gli ho rubato molti segreti. Non era il massimo del dinamismo e mi lasciava volentieri la fascia. Mi diceva: “Io vado via, tutta tua la zona. Tu non chiama palla, io vedere te”».
Insomma, ti cambiava poco. «Diciamo che, senza la figura classica del regista che Trapattoni e Boniperti avevano accantonato, quella Juve faceva un 4-3-3, con Scirea libero di avanzare, Tardelli e Benetti che si inserivano e Furino tergicristallo e centrocampo. Davanti, Boninsegna punta centrale con il sottoscritto e Bettega a fungere da registi di attacco e con il compito anche di tornare a centrocampo. Una squadra fortissima».
Infatti, arrivarono due scudetti consecutivi, di cui uno record e la prima coppa internazionale. «È stata una delle formazioni bianconere più forti di tutti i tempi. Cento per cento italiana. La notte di Bilbao con la conquista della prima Coppa Uefa rappresenta uno dei momenti più belli della mia carriera. Senza dimenticare il viaggio di ritorno su un aereo messo a disposizione dell’avvocato Agnelli, in una notte di temporali».
La Juventus di quel periodo fa sempre più rima con Nazionale. In Argentina eravate in nove. «Che Mondiale! Una storia da raccontare. Intanto per quanto e come fu diversa da quella, allucinante, vissuta quattro anni prima in Germania. Furono commessi tanti errori, il primo quando furono assegnati i numeri delle maglie con la netta divisione tra titolari e riserve. Si scatenarono le proteste, si facevano continue riunioni, già in treno: veniva Allodi, capo delegazione, e ci convocava tutti in uno scompartimento. E poi Chinaglia. E le polemiche su Mazzola e Rivera. Devo dire che proprio in quelle circostanze ho potuto apprezzare la grandezza di Gianni Rivera, anche come persona. Tra l’altro il destino volle che fossi proprio io a dargli il cambio contro l’Argentina, nella sua ultima gara con la Nazionale».
Torniamo al 1978, che forse è meglio. «Mica tanto se ripenso alla vigilia della partenza per Buenos Aires. Avevamo la critica contro, specie dopo lo 0-0 con la Jugoslavia a Roma. Ma eravamo imballati, perché avevamo ripetuto la preparazione. Ci siamo ripresi subito, con le partite che contano. Cabrini, all’esordio assoluto, era uno che spaccava gli equilibri. Paolo Rossi ha meglio assortito il reparto offensivo. Il resto della squadra ha trovato morale e convinzione, proponendo il calcio più bello di tutto il torneo. L’Italia era in cima al mondo. Non c’era la moda di cantare l’inno, ma quando lo sentivo mi veniva la pelle d’oca e capivo di rappresentare il mio paese».
Sapevate cosa stava accadendo fuori? «No. Uscivamo scortati, questo sì. Io ho avuto piena cognizione di tutto leggendo il libro di Massimo Carlotto, molti anni dopo. È stato un colpo allo stomaco. Posso dire che sono doppiamente felice di aver battuto l’anno dopo l’Argentina nella gara celebrativa con il Resto del Mondo, di cui facevo parte. Vincemmo 2-1, con un uomo in meno e rovinammo la festa a Videla».
Si poteva vincere il Mondiale argentino? «Mi verrebbe da dire di sì. Tutto è passato dalla partita contro l’Olanda. Alla fine del primo tempo, sull’1-0 per noi, Bearzot mi ha tenuto fuori per far entrare Claudio Sala. L’idea era quella di risparmiarmi per la finalissima. Che non abbiamo mai giocato».
Dopo Argentina 1978, la Juve rallenta. «Il campionato del dopo Mondiale è sempre una corsa in salita. Lo scudetto andò al Milan, noi non fummo mai in gioco, e anche in Europa si uscì subito dalla Coppa Campioni. Ci consolammo con la Coppa Italia, vinta con i goal di due leccesi: Brio e Causio. Ricordo che mi marcava Citterio e che non mi mollò un attimo».
Con chi hai avuto i duelli più duri? «Alessio Tendi della Fiorentina, uno che ti dava subito la zampata da dietro. Poi Giulio Zignoli, altro terzino tutto ossa. In campo internazionale, Cooper del Leeds e l’argentino Tarantini. Ma la storia più curiosa è quella con Facchetti. Contro di lui segnai il primo goal in Serie A in Palermo-Inter del 21 settembre 1969. Lui si vendicò realizzando il goal vittoria per i neroazzurri».
E arriviamo al 1980-81: perdi il posto da titolare nella Juve e nella Nazionale. «Trapattoni prima delle partite faceva il giro delle camere e mi diceva sempre le stesse cose: “Per questa volta devo chiederti un sacrificio, ti faccio star fuori, metto dentro Fanna o Marocchino”. Sempre la stessa storia. Persa la Juve, anche la Nazionale si è allontanata. Bruno Conti stava facendo benissimo con la Roma e mi soffiò il posto in azzurro, complice una squalifica che avevo rimediato per un rosso contro il Lussemburgo».
Per la Juventus sei al capolinea. «Non ho mai saputo da Trapattoni il vero perché. Forse gli rodeva il tunnel che gli avevo fatto diversi anni prima. A parte la battuta, la verità è che dopo undici anni finiva la mia avventura alla Juve senza un motivo. Boniperti non voleva certo rinforzare una diretta concorrente. Serviva una squadra di seconda fascia. Spuntò l’Udinese, io non ero per niente contento. Mi convinsero Dal Cin, il direttore generale, ed Enzo Ferrari, l’allenatore, mio ex compagno al Palermo».
Diciamo la verità: un bel declassamento. «Ma io ho tirato fuori il meglio di me. Non mi sentivo finito. L’orgoglio ha giocato una parte fondamentale e uno stimolo forte furono le parole di Bearzot. Mi disse: “Vai nella mia terra, comportati bene. Sappi che io ti seguo. Non ti chiamerò subito, ma se fai bene e non rompi le scatole, io ti porto al Mondiale”. Tirai fuori un campionato da Guerin d’Oro e andai in Spagna. Anche in quell’occasione mi chiamò il Vecio e mi disse: “Bruno Conti è il titolare, le gerarchie sono chiare. Voglio che tu venga per fare gruppo. Sei d’accordo?” Dissi subito sì».
E l’11 luglio 1982 giochi la finale di un Mondiale. «Non era previsto e fu un’emozione straordinaria. Fu un regalo bellissimo fattomi da un uomo eccezionale: Enzo Bearzot».
Al quadro dei ricordi manca solo il presidente Sandro Pertini. «Lo sai che nella partita di scopone scientifico sull’aereo presidenziale, io bluffai? Tirai un sette, Zoff lo lasciò passare e Bearzot lo prese. Si vinse noi e Pertini si arrabbiò tantissimo. Una scena indimenticabile. Al pari di quella volta che si fece accompagnare dai carabinieri al campo di allenamento dell’Udinese e mi fece portare via dagli agenti perché mi volle a pranzo con sé».
A Udine vivi una seconda giovinezza. «Avevo dimostrato che certe valutazioni erano sbagliate, anche alla luce di chi mi aveva sostituito alla Juve. All’Udinese arrivò Zico, che con me si divertì molto. Peccato che a marzo si infortunò. Questo gli ha pregiudicato il trasferimento all’Inter: Dal Cin, nel frattempo diventato dirigente neroazzurro, aveva messo le basi per il doppio colpo: Causio e Zico da Udine a Milano».
A proposito: perché proprio l’Inter? «Arrivarono per primi e mi offrirono un buon ingaggio. Posso dirti che si fece vivo anche il Napoli, con Juliano, e per la seconda volta dissi di no. La prima era stata nel 1978, durante i Mondiali di Argentina. All’Hindu Club arrivarono Ferlaino e Gianni Di Marzio per convincermi ad andare al Napoli. Io rifiutai, mentre Bearzot per poco non li caccia via a pedate».
E la Juve nel 1984 non si rifece sotto? «Come no? Mi cercò Boniperti. Gli dissi che non sarei tornato finché ci fosse stato Trapattoni. Mi fece piacere. Così come mi fecero piacere le parole dell’Avvocato. Quando tornai in Nazionale, disse ai suoi dirigenti: “Per fortuna che fisicamente era finito!”».
Con l’Inter, però, l’annata non è da ricordare. «Ci furono incomprensioni anche con Dal Cin, alla fine della stagione me ne andai. Tornai al Lecce, soprattutto per far contento mio padre e feci altri due anni a Trieste in B. La cosa incredibile è che ho giocato l’ultima partita in A proprio contro la Juve, il 27 aprile 1986, il giorno della conquista dello scudetto ventidue dei bianconeri».
Ultima domanda: hai mai segnato alla Juve? «No, ma con l’Udinese nel 1982 ci andai vicino. Rigore per noi, di solito tirava Edinho. Presi il pallone io. Guardai la porta, vidi Zoff e il pallone volò in cielo».

6 commenti:

Anonimo ha detto...

causio per la mia generazione (67')ha rappresentato il gioco del calcio. molti di noi ci avvicinammo al calcio grazie a lui ai bettega ai zoff che personaggi e che campioni, ci hanno accompagnato fino all'età adoloscenziale facendoci vivere bellissimi momenti di calcio, di sport vero.credo che la mia generazione ,appassionata di calcio debba applaudire questi grandi eterni personaggi......grazie barone.raf 67

Anonimo ha detto...

mi chiamo christian ho 9 anni mio padre mi racconta che aveva la mia stessa eta quando giocavi nella juve e faceva la raccolta di figurine panini mi a detto che facevi certi dribbling che facevi girare la testa agli aversari
VIVA IL BARONE FRANCO CAUSIO CHRISTIAN DA TARANTO

Anonimo ha detto...

ho 44 anni, sono cresciuto juventino ammirando le gesta della grande Signora di Zoff, di Furino, di Tardelli, di Bettega e soprattutto di Causio. Da quando gli hanno fatto un favore spedendolo a "svernare" a Udine ho cambiato bandiera ma non colori. Ora a distanza di tanti anni con una Udinese che viaggia a mille non posso fare altro che ringraziare l'ottusità dell'allora dirigenza juventina per aver permesso che un grande campione rendesse grande l'Udinese di allora per il futuro che si è materializzato nella squadra che gioca il più bel calcio italiano da molti anni. Grazie Juve e grazie Causio!!!

Enzo Saldutti ha detto...

Franco Causio fu uno dei più grandi giocatori di un ruolo inventato nel calcio italiano: quello di ala tornate. In lui rivive il fasto barocco della città di Lecce donde proviene giacché dribbla con una fantasia carioca la quale induce la cronaca giornalistica a coniare la dicitura di Causio Brazil. Il talento lo porta alle cose belle però sempre a completare la manovra della squadra nel capovolgere improvvisamente il fronte di gioco trapattoniano allungando al bacio per lo spettacolare impatto aereo di Bettega dopo scatti e finte irresistibili. Lo chiamano anche il Barone poiché elegante nel vestire ma egualmente impeccabile nei tocchi di quel piede fastoso e vellutato.

andrea falleni ha detto...

IL BARONE, quando cominciò a non giocare più nella Juve persi l'affezione per la dirigenza , ogni settimana aspettavo una figuraccia di Fanna o Marocchino e imprecavo contro il Trap, che bello verderlo rinascere a Udine e giocare da brasiliano con Zico, Grande Barone, grazie di tutto.

Unknown ha detto...

È cosi caro, idem, non vedevo l' ora di vedere le figuracce di Fanna e Marocchino.Diventai tifoso dell' Udinese tra l' altro c' era l' altro mio idolo calcistico, Zico