martedì 23 gennaio 2024

Moreno TORRICELLI


La sua storia ha dell’incredibile; si può dire che interpreta la fiaba di Cenerentola ambientata nel mondo del calcio. Moreno Torricelli, infatti, lavora come magazziniere in una fabbrica di mobili della Brianza ma, grazie a un’amichevole disputata dalla Juventus nel luglio del 1992 contro la squadra nella quale milita per hobby, la Caratese (Campionato Nazionale Dilettanti), la sua vita cambia. «Dai quindici ai ventidue anni ho lavorato fino alle sei del pomeriggio. Fare il falegname non mi dispiaceva, così come essere un calciatore solo per divertimento e qualche spicciolo. Avevo già allora una volontà di ferro. Ero uno di quelli che appena finito il turno preparava la borsa e volava al campo sportivo per l’allenamento. Fino a tardi, almeno tre volte a settimana. Sacrifici che oggi ricordo con grande piacere. Sarebbe stato bello farli anche se non fossi arrivato in Serie A. In origine ero un libero. Staccato, si diceva quando la marcatura era solo a uomo. Ho giocato così nei primi anni a Oggiono. Poi nel 1990 andai a Carate Brianza, dove arrivò un allenatore, Antonelli, che portò idee nuove. Il Sacchi dei campionati minori. Ci fece giocare in linea e mi spostò a giocare sulla fascia. Mi ha inventato come terzino, sono stato bravo ad adattarmi».
Giovanni Trapattoni, impressionato dalla carica agonistica e dalla grinta del giocatore, lo convoca in prova nel ritiro precampionato bianconero e convince la Juventus ad acquistarlo per pochi milioni di lire. «All’improvviso è spuntata la Juventus e fino all’ultimo non ci ho creduto. Mi seguivano due società; avrei potuto andare alla Pro Vercelli, ho fatto un provino per il Verona, infine sembravo destinato al Lecce. Poi è arrivata la grande occasione, due amichevoli con la Juventus che aveva bisogno di prestiti per le gare di Vicenza e Ancona. La favola è cominciata lì. Con la Juventus, mica una squadra qualsiasi».
Non fatica molto a diventare titolare fisso della squadra che in quella stagione si aggiudica la Coppa Uefa, battendo in finale i tedeschi del Borussia Dortmund. «Probabilmente non ho avuto nemmeno il tempo di rendermene conto che giocavo con la Juventus, mi sono subito sentito a mio agio. Ora mi sembra tutto normale, grazie all’aiuto dei miei compagni che, sin dal primo giorno, si sono comportati con me come se fossi uno di loro».
Giocatore volitivo e dalla grande grinta, Geppetto (così chiamato dai compagni) occupa indifferentemente tutti i ruoli della difesa juventina, anche se preferisce giocare sulla fascia destra. Proprio per la sua generosità, per la sua voglia si lottare e per la sua determinazione, diventa immediatamente l’idolo dei tifosi juventini.
Dal Trap si passa a Lippi, ma la musica non cambia. Moreno è sempre titolare fisso della squadra bianconera. Le due stagioni migliori per Torricelli sono la 1994-95 e la 1995-96. Conquista lo scudetto, la Coppa Italia, la Coppa Campioni, la Coppa Intercontinentale, la Supercoppa europea e la Supercoppa Italiana, disputando partite memorabili per intensità e grinta. Da incorniciare è la finale contro l’Ajax, nella quale sfiora il gol dopo una corsa di cinquanta metri verso la porta avversaria e viene eletto miglior giocatore in campo. «La stagione del primo scudetto è stata unica, memorabile; siamo partiti senza i favori del pronostico poi, strada facendo, arrivano le vittorie. Un pomeriggio, allo stadio Tardini, prima di Parma-Juventus, Luca Vialli si mise a strillare: Ragazzi, il treno passa una sola volta, non facciamolo scappare! Detto e fatto; battemmo i rivali emiliani per 3-1 e ci avviammo trionfalmente verso il titolo. Secondo me, quella è stata la partita della nostra svolta».
Naturalmente, arriva anche la convocazione in Nazionale con la quale disputa dieci partite, partecipando al Campionato Europeo inglese. Nelle stagioni 1996-97 e 1997-98 Geppetto è ancora protagonista ed è determinante per la conquista due scudetti. Nell’estate del 1998, dopo 230 partite e tre gol in maglia bianconera, chiede e ottiene di essere ceduto alla Fiorentina, dove ad allenare la squadra c’è proprio il Trap, l’uomo che lo aveva scoperto sei anni prima. Moreno lo ringrazia con un’ottima stagione che termina con la conquista da parte della squadra viola del terzo posto in campionato e con l’accesso ai preliminari di Coppa dei Campioni.
Rimane in riva all’Arno fino all’estate del 2002, anno del fallimento economico della società. Nel gennaio 2003 si trasferisce in Spagna, nell’Espanyol, dove disputa due stagioni. Torna in Italia nel novembre 2004 giocando nelle file dell’Arezzo, nel campionato di Serie B.

NICOLA CALZARETTA, DAL “G.S.” DEL FEBBRAIO 2010
Bar nel centro di Figline Valdarno. Fuori piove, costante di un inverno mai così bagnato come questo. Tavolino defilato per le confessioni di Moreno Torricelli, fresco quarantenne e tecnico della squadra matricola nel Girone A della Lega Pro, Prima Divisione. Fili grigi tra i capelli che gli scendono sulle spalle, unico vezzo per un ex calciatore atipico. Perché passare dall’Interregionale (con annesso impiego in un mobilificio) alla Juve è già roba per pochi. Ma rimanerci e viverci bene per diversi anni è impresa eccezionale. Altro che mio su mille. In sei stagioni di Juve Geppetto Torricelli ha indossato più di duecento maglie bianconere. Dalla Coppa Uefa col Trap al filotto di scudetti e trofei con Lippi per la nascita del nuovo mito juventino. Quello moderno, che parte dalla triade e si completa con un gruppo di giocatori di categoria superiore. Sul quale, però, gravano ombre e sospetti, inevitabile corollario di Calciopoli e del processo doping alla Juventus.
– Come vive l’ex bianconero Torricelli tutto questo? «Non bene. Calciopoli mi ha lasciato un profondo senso di scoramento e delusione. E tanti dubbi. Sebbene i miei anni alla Juve non siano stati oggetto di indagine, il solo fatto di pensare che anche io, a mia totale insaputa, abbia potuto far parte di un tale sistema, mi disgusta. Chi me lo dice che anche nel mio periodo bianconero non fosse già in atto tutto quello che è emerso dalle indagini?».
– Hai qualche sospetto fondato? «Sinceramente no. Anzi, metto subito in chiaro una cosa: lavoravamo tantissimo e i successi li abbiamo ottenuti sul campo. Era una Juve forte, con fuoriclasse e gente tostissima».
– E allora i dubbi da cosa nascono? «Faccio solo dei ragionamenti e dico: se la realtà è quella ricostruita dalle procure, un “sistema” così non lo metti in piedi in poco tempo. E pertanto potrebbe avere avuto origine in epoche precedenti. E poi c’è dell’altro. Credo che il fenomeno coinvolgesse anche tutte le big del calcio italiano, comprese Milan e Inter. Il calcio è un giochino che costa parecchi soldi. Mi pare veramente strano che società che annualmente investono decine di milioni di euro non siano dentro a certi meccanismi e a certe logiche».
– Chi ti ha maggiormente deluso? «Gli arbitri. Il mondo arbitrale è uscito malissimo da questa storia. Ho sempre creduto nella buona fede del direttore di gara. E un principio assoluto. Invece, specie dopo aver ascoltato certe intercettazioni, lo stomaco si è rivoltato».
– E sulla coppia Moggi-Giraudo, cosa dici? «Non me lo sarei mai aspettato, lo giuro. Li ho conosciuti bene, benissimo. Con Antonio Giraudo era nato un bel rapporto anche con le famiglie. Ricordo sempre che quando mi sono infortunato gravemente al ginocchio, Giraudo mi è stato molto vicino, facendomi spesso visita a casa».
– Magari su Moggi avevi qualche riserva in più. «No, davvero, anche se su di lui sono sempre girate le voci più disparate. Fin dai primi giorni alla Juve Moggi ha dato prova delle sue grandi capacità. Personalmente non ho mai avuto dubbi sulla sua lealtà e correttezza, con me si è sempre comportato degnamente. Piuttosto c’è un fatto che mi ha sempre incuriosito e non mi sembra che abbia avuto il giusto risalto dai media».
– A cosa ti riferisci? «All’incontro di Roma tra Moggi e Berlusconi, avvenuto poco prima che scoppiasse lo scandalo».
– Moggi è stato incastrato? «Metto solo in evidenza il fatto che, qualche mese dopo quell’incontro, è esplosa la bomba. Può darsi che sia solo una coincidenza, ma i dubbi rimangono. Ripeto: nel calcio gli interessi sono enormi. Per tutte le società, non solo per la Juventus che, alla fine, è l’unica che ha pagato sul serio».
– Quali sarebbero stati i provvedimenti da prendere secondo te? «Intanto, se c’era tutto quel marcio, andava fatto un cambiamento radicale. In più 1’Uefa avrebbe dovuto assumere una posizione più coraggiosa, impedendo la partecipazione del Milan alla Champions. Chi ha sbagliato deve pagare, senza sconti o corsie preferenziali. A me è sembrato che, per salvare il calcio italiano, sono stati solo colpiti la Juve e Moggi».
– Cosa ricordi del primo incontro con Luciano Moggi alla Juventus? «Cambiava un’epoca. Dall’Avvocato si passava al Dottor Umberto. Da una dirigenza a gestione familiare a una più fredda e tecnica. Da Boniperti a Giraudo e Moggi. Non fu un passaggio indolore. Della vecchia gestione rimase solo il magazziniere. Per stare al passo con il Milan era l’unica strada da percorrere. E Moggi rappresentava il top, comprese le voci maligne».
– Voci legittime? «Di sicuro è che se la Juve voleva tornare a vincere, Moggi, per l’esperienza e le capacità, era il dirigente più adatto per costruire qualcosa di importante».
– E Bettega? (sorriso sarcastico) «Nessun problema, per carità. Ma a pelle non ci siamo mai presi. Prima di tornare come dirigente, da commentatore in TV è andato giù duro con la Juve, forse un po’ troppo».
– Tu come hai vissuto il passaggio? «Non c’era più Francesco Morini come team manager, non c’era più Boniperti. Erano stati ceduti anche diversi compagni. E poi andò via Trapattoni, al quale ero molto legato. È stato grazie a lui che sono arrivato alla Juve direttamente dall’Interregionale».
– All’epoca si parlò di favola: è giusto dipingerla così? «L’incredibile sta nel salto mortale da una categoria dilettantistica alla società più titolata d’Italia nel giro di pochissimo tempo. Fin qui può anche essere una favola. Però c’erano delle basi importanti, altrimenti non avrei retto il colpo. E questa è tutta realtà».
– Che ricordi conservi? «Non ho dimenticato niente, come potrei? Era il 1992. La Juve doveva giocare alcune amichevoli di fine stagione ed io fui aggregato alla squadra come prestito. In quel periodo ero seguito da alcune società di C, insomma qualcosa si sarebbe mosso. Giocai bene, credo che Trapattoni abbia apprezzato la mia grinta, la determinazione, la fame che avevo. E così per l’anno dopo chiese alla società di acquistarmi».
– Il primo ingaggio a quanto ammontava? «Ottanta milioni, più i premi. Ma la cifra la mise Boniperti perché io firmai in bianco. Andai in sede con il mio procuratore, ma il presidente non lo fece neanche entrare».
– È vero che come prima cosa ordinasti una Lancia Thema? (ride) «Verissimo, d’altronde ero senza macchina. La BMW che mi ero comprato con tutti i risparmi che avevo, mi era stata rubata. Senza auto e senza denari, approfittai degli sconti Fiat. Mi è andata bene».
– Quanto ha inciso Trapattoni nella tua riuscita? «È stato determinante. Con me ha rischiato grosso. Non è da tutti puntare su un giovane che viene dai Dilettanti. Il nostro era un rapporto speciale, ci parlavamo in dialetto. E non sai quante volte sono rimasto a fine allenamento con lui per migliorare la tecnica».
– Dal Trap a Lippi. «Non fu un passaggio indolore. Inizialmente è stata durissima. Dico subito che Lippi è il miglior allenatore che ho avuto, il più completo. Però quando arrivò le distanze tra di noi erano notevoli. Dovevamo capirci, conoscerci, ma non è stato semplice. Al punto che stavo quasi per andare alla Roma. Un giorno durante la solita chiacchierata prima dell’allenamento, il mister mi attacca davanti a tutti. Per me, un fulmine a ciel sereno. Ci fu un battibecco tra me e lui. Incredibile. Dalla rabbia, mi vennero le lacrime agli occhi. Non c’erano motivi specifici. Io avevo alle spalle due campionati tra i professionisti. Voleva qualcosa di più da me. Di sicuro non gli piaceva che io fumassi. Lì per lì l’ho odiato: perché attaccarmi di fronte ai compagni? Con il tempo ho capito che era il suo modo per spronare i giocatori, per tenerli sulla corda. Tutto in funzione del gruppo».
– A volte questa del “gruppo” sembra una storiella un po’ artificiosa. «Niente affatto. Per Lippi il gruppo è il fulcro di tutto, basta vedere quello che è successo ai Mondiali. La Juventus è stata per lui la prima grande occasione. Il rischio era grosso pure per lui e aveva bisogno che la squadra lo aiutasse».
– Chiese a Vialli di rimanere. «Luca era giù di corda. Lippi seppe ricaricarlo e rinacque. Vialli in allenamento era un rompiballe incredibile. Guai a sbagliare un passaggio: voleva il pallone preciso dove indicava lui. Ma in partita era il primo a darti una mano. Finiva un’azione d’attacco ed era già vicino a noi difensori per aiutarci. Un vero leader, anche fuori dal campo. Quello che non è stato Baggio. Roby era uno tranquillo. Io credo che, per il grande giocatore che era, avrebbe potuto dare di più in termini di personalità, anche coi dirigenti. Per dirti: Vialli era uno che se avevi un problema se ne faceva carico con la società».
– Lippi quando svoltò davvero? «Dopo la sconfitta per 2-0 a Foggia, parlò al gruppo senza mezzi termini. Disse che si era stufato di vedere la squadra che rinculava e subiva. Se proprio dobbiamo rischiare, disse, allora andiamo avanti. Da lì nacque l’idea del tridente. Fu la scossa vincente».
– Con Del Piero sempre più spesso in campo al posto di Baggio. «Ma al di là dei singoli, la forza di quella Juve era nella voglia di sacrificarsi per arrivare alla vittoria. Vedere quei tre davanti che non si fermavamo mai, dava a tutti noi una carica eccezionale».
– Merito della cura Ventrone? «Mamma mia. Al confronto gli allenamenti con Trapattoni erano passeggiate. Ci ammazzava. Ogni giorno ci aspettavano cinquecento addominali».
– Ma nessuno lo ha mai mandato a quel paese? «A turno lo abbiamo fatto tutti, ma poi si vinceva e allora Ventrone era bravo. In campo andavi come una scheggia».
– Solo per merito della preparazione atletica? «No, anche della tua forza di volontà e della carica che ti dà il successo».
– E dell’armadio che traboccava di medicinali ne vogliamo parlare? «Eccomi qua. Intanto ti dico che la Juve era l’unica società che all’inizio della stagione consegnava ai giocatori un plico alto così con l’elenco delle sostanze dopanti, questo perché tutti fossero ben informati al riguardo».
– Dato per letto il documento, nella realtà cosa succedeva? «Grosso modo quello che accadeva in tutte le squadre. Si usavano molti reintegratori. Eravamo sempre in campo, tra campionato e coppa. Era necessario recuperare bene e in poco tempo».
– Usavate la creatina? «Sì, ma ti ripeto, non eravamo i soli. Ricordo che durante i ritiri con la Nazionale, capitava di affrontare l’argomento tra compagni di squadre diverse. E tutti facevano uso di reintegratori».
– Alla Juve eravate obbligati a prendere questi prodotti? «Assolutamente no. Il dottor Agricola, specie quando c’era un nuovo ritrovato, illustrava a tutti di cosa si trattasse e quali potevano essere gli effetti collaterali. Ricordo che Peruzzi, per esempio, non prendeva nulla perché certi reintegratori facevano ingrassare».
– Tu come ti comportavi? «Uno come me che non era un fuoriclasse doveva essere sempre al top. Il posto, una volta conquistato, andava difeso. E siccome nessuno ti aspettava, dovevi farti trovare sempre pronto».
– Mai preso niente di dopante? «Mai Ripeto: mi sono sempre messo nelle mani dei medici».
– Ma il fatto che qualche tempo fa il tuo nome sia stato associato alla SLA, cosa ti ha fatto pensare? «Tutto è nato dalle prime indiscrezioni venute fuori riguardo a Stefano Borgonovo. Non si conosceva il nome, si sapeva che il calciatore ammalato era del comasco, che aveva una quarantina d’anni, che era stato nazionale e nella Fiorentina. Qualcuno ha tirato fuori il mio nome».
– La tua reazione? «Nel rispetto per Borgonovo che, oltretutto, è anche un amico, ho fatto chiarezza, dimostrando che stavo bene e non avevo problemi. Certo, il solo fatto che qualcuno abbia pensato a me, mi ha fatto riflettere».
– Il processo sull’abuso di medicinali alla Juve non ti ha aiutato. «Non ho mai capito come sia stato possibile che in primo grado, alla condanna del medico, non sia seguita anche quella della società. Il doping costa. I medicinali non li compra mica il medico di tasca sua».
– Ma è vero che c’erano anche molti psicofarmaci? «L’unica cosa che ti posso dire è che in quel periodo c’era un nostro compagno, di cui per rispetto non faccio il nome, che aveva problemi di depressione».
– Certo, benché ci sia stata anche recentemente la confessione di Buffon, suona strano pensare che il male sottile colpisca il calciatore. «Non è strano. Dietro al giocatore, c’è sempre un ragazzo. Che ha la possibilità di avere un tenore di vita molto elevato, ma al quale sono richieste responsabilità pesanti. Alla Juve non stacchi mai, devi sempre e solo vincere, sei costantemente sotto pressione».
– La cosa più bella che ti ha dato la Juventus? «La Coppa dei Campioni a Roma nel 1996. Ricordo tutto: la notte insonne, il viaggio in pullman fino allo stadio, la formazione letta dal mister due ore prima, l’adrenalina che ti scuote. E poi il campo. La vittoria. La Coppa e il palco. E gli occhi di Vialli che brillano, perché il treno stavolta si è fermato. La gioia per aver giocato una delle più belle partite della mia vita, correndo per due ore. E alla fine, sorteggiato per il controllo antidoping con Kluivert, la battuta dell’avversario sconfitto: Ti hanno beccato, eh?».

NICOLA CALZARETTA, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MARZO 2012
Moreno Torricelli. Nella storia bianconera nessuno come lui. Non solo e non tanto per il doppio salto mortale dall’Interregionale alla Juventus, cinque categorie in un colpo solo. Quanto perché, a quelle altezze, lui ci si è abituato da subito, senza bombole di ossigeno. Correva l’anno 1992. E per il giovane difensore nato a Erba il 23 gennaio 1970 cambiava la vita. Da magazziniere in un mobilificio, alla maglia bianconera. Da terzino nella Caratese a compagno di Baggio e Vialli. Senza timori, né paure. Anzi. Il primo trofeo è la Coppa Uefa nel 1993, quindi il campionato e la Coppa Italia con Lippi due anni dopo. Ed è con lo scudetto e la coccarda tricolore cuciti sul petto che Torricelli, maglia bianconera numero due, affronta il ritorno contro il Real Madrid il 20 marzo 1996. In palio la semifinale di Champions League. «Il Delle Alpi era pieno, una delle poche volte in cui ho visto lo stadio esaurito. L’atmosfera era quella giusta. Grande tensione, anche perché in campionato eravamo messi male e la Champions era l’unico obiettivo della stagione».
– Faceva paura il Real Madrid? «Quello del Real è sempre stato un nome ingombrante. Poi c’erano dei veri ossi duri come Hierro, Michel e Luis Enrique. Al Bernabéu ci avevano messo seriamente in difficoltà. Merito di San Peruzzi se finì solo 1-0 per loro».
– Come fu preparata la gara di ritorno? «Non ci furono novità particolari. Piuttosto non erano disponibili Ferrara, Paulo Sousa e Ravanelli. Ma quella squadra lì poteva contare su un gruppo veramente di qualità. Il resto lo fece la sfida in sé, un vero e proprio duello: dentro o fuori, tutto di un fiato».
– L’inizio è promettente: al sedicesimo Del Piero segna su punizione. «Ed eravamo in parità. Lì è cominciata la vera partita. Grandissimo Ale, uno dei giocatori più forti che abbia mai incontrato. Mi sono fermato mille volte ad ammirarlo in allenamento mentre tirava le punizioni».
– Per rubargli i segreti? «Con i miei piedi? (ride) No. Semmai era bello vedere la sua dedizione, il suo impegno, la volontà che ci metteva per migliorarsi ogni giorno sempre di più: un esempio, mi creda».
– Torniamo al Real. Finisce il primo tempo e il risultato è sempre di 1-0. «Nella ripresa entra Di Livio al posto di Jugović. Per il resto, tutto uguale, compresa l’aumentata convinzione di poter passare il turno».
– Passano otto minuti e Padovano realizza il 2-0. «Il Delle Alpi venne giù. Ma il gol era nell’aria. Già nel primo tempo avevamo sfiorato il raddoppio. Dopo la gioia, però, ci fu la presa di coscienza che da lì in avanti sarebbe stata ancora più dura».
– II Real attacca, ma nel frattempo Alkorta viene espulso. «Il guaio è che proprio io beccai un rosso pochi minuti dopo. Ricordo che guardai la partita dal sottopassaggio in compagnia di Zamorano che era squalificato. Lì vidi il pallone calciato da Rincon che sfiorò il palo. Era quasi il novantesimo. Sarebbe stato il gol del sorpasso del Real. Un po’ di fortuna non guasta mai».
– L’arbitro Van der Ende finalmente fischia la fine e la Juve è in semifinale di Champions. «Una gioia immensa, adesso c’era soltanto un altro ostacolo da superare prima di arrivare alla finale di Roma. Che avremmo vinto».
– Che ricordi ha della notte romana? «Per me è stata la vittoria più esaltante, quella che mi ha dato una scossa di adrenalina incredibile. Ma anche il campionato e l’Intercontinentale sono conquiste eccezionali. Lo scudetto è una vittoria particolare, la assapori un po’ alla volta mentre prende forma. A Tokyo fu tutto strano. Solo dopo il ritorno in Italia mi sono realmente reso conto di cosa avevamo fatto».
– Anche del suo modo di esultare con la maglia al contrario? «Erano i primi tempi che il nome veniva stampato dietro. Mi venne così, senza pensarci troppo, di girarmi la maglia in modo che nome e numero fossero sul davanti. Credo di essere stato il primo».
– Che sta facendo adesso? «Mi sto dedicando alla famiglia. Ho avuto anche qualche proposta per allenare in Serie B ma credo che, dopo la scomparsa di mia moglie, sia più giusto adesso pensare ai figli».
– Come si reagisce a queste entrate dure del destino? «Pensando alle cose veramente importanti. Devo dire che lo sport insegna molto. Soprattutto a trovare la forza per superare gli ostacoli e a mantenere l’equilibrio».

3 commenti:

Unknown ha detto...

che grinta il Moreno, da clonare!!!

Rob72 ha detto...

Grande moreno splendida intervista alla gazzetTa che provocava su lippi su moggi sul doping su vialli..sta alla juve anni 90 come gentile a quella anni 70 e 80...non ti dimentichiamo campione anche se non lavori al momnto in societa'

Unknown ha detto...

A prescindere dalla fede calcistica, il signor Torricelli è una persona a cui dover portare molto rispetto.