giovedì 22 giugno 2023

Virginio DEPAOLI


Due campionati, quarantasette presenze complessive – scrive Gianni Giacone su “Hurrà Juventus” del dicembre 1972 – e sedici reti (e mezza...): ecco qui, il giorno in cui i calciatori verranno incasellati nella memoria di un «computer», questa potrebbe essere la scheda riassuntiva del Depaoli, centravanti juventino edizione 1966-67 e 1967-68. Senonché, intanto bisogna spiegare quel «mezzo gol», cosa che un calcolatore elettronico, nella sua fredda meticolosità, potrebbe non saper fare; e poi, non ci pare niente bello liquidare così un personaggio come Gigi Depaoli, heribertianamente scudettato e persino azzurro in più di una occasione. Le cifre ci danno del Depaoli-calciatore-juventino un ritratto sbiadito alquanto, estremamente comune, appiattito forse anche dal fatto che i suoi trascorsi bianconeri risalgono ad appena un lustro fa.Mentre l’aficionado che ricorda le tappe del tredicesimo scudetto ricorda pure benissimo come di Gigi tutto si potesse dire men che fosse un calciatore comune. Gol e quasi-gol alla mano, la sua figura merita almeno un quadretto a parte. Ecco, forse lo sbaglio di Depaoli è stato quello di nascere troppo tardi, in un periodo in cui il raffinato tecnicismo e ancor più il tatticismo di maghi e maghetti han reso terribilmente complicate le semplici cose del pallone. Il calcio vercellese degli anni dieci, ecco quel che gli sarebbe andato a pennello. Un gioco non ancora fatto di formule o metodi ma neppur più ginnasiale e irrazionale come quello della Juve neonata in Piazza d’Armi: calcio robusto, essenziale, di squadra nel senso che tutti lavorano per il gol, anche se poi è uno, l’attaccante amante del rischio più degli altri, che deve segnare. Berardo o Rampini, ala e centravanti delle leggendarie bianche casacche, erano così. O, almeno, così ce li descrivono i giornali ingialliti dell’epoca.
Che è un’epoca di dannunzianesimo spinto: ora, ditemi un po’ se uno come Depaoli, che di nome è Gigi solo per i tifosi, ma che in realtà si chiama Virginio, non andrebbe bene in quel tempo lontano.
Certo la Juve della metà degli anni sessanta è cosa un po’ lontana dai fremiti decadenti, e anzi di decadente ha ben poco: Heriberto Herrera allenatore come Tino Castano capitano, Del Sol scavallante mezzofondista come Bercellino stopper di granito, sono tutti professional con i piedi ben piantati per terra, si lavora duro e si fantastica poco o niente, solo così essendo possibile fare in tempi nerazzurri e per di più morattiani.
Ma un centravanti come Depaoli invita subito all’ottimismo, lascia intravedere tempi decisamente più allegri: non che i suoi predecessori nel ruolo abbiano fatto male, ma la gente vuole uno che i palloni prima di tutto li sbatta dentro, e in questo senso Gigi garantisce come pochi in Italia. Non per nulla, nella Nazionale dell’indomani-Corea, accanto a una marea di interisti, trova posto lui nel ruolo chiave di guida dell’attacco. È la giusta rivincita contro chi lo aveva frettolosamente scartato nel pre-mondiale: Italia-URSS uno a zero, non segna Depaoli ma pure la sua prestazione è encomiabile e oltremodo confortante. La prova azzurra cade in novembre, ma intanto, capperi, è iniziato un campionato che per la Juve vorrà dire parecchio, e Depaoli non ci mette molto a farsi apprezzare.
Accade al Comunale di Firenze, 2 ottobre ‘66, terza giornata. La squadra bianconera è reduce da due vittorie di ordinaria amministrazione, anche il bel gol di Depaoli al Lecco è stato in fondo di ordinaria amministrazione. Ma ora è venuto il momento di spiegare a tutti quanto vale la squadra di Heriberto, contro un avversario forte e tradizionalmente ostico. Segna Salvadore e sembra fatta, poi, improvvisamente, a un quarto d’ora dalla fine, arriva il pareggio del marpione Hamrin e tutto si rimette in discussione. I viola mettono alla frusta la difesa bianconera ma non riescono a far breccia. E alla fine Depaoli li castiga con una rete che, vista la sera da milioni di telespettatori, fa del neo-goleador juventino un autentico beniamino. Corner, davanti ad Albertosi c’è mischia, ma Gigi si intruffola con tempismo e trova pallone e angolino. Una questione di frazione di secondo fra il suo scatto bruciante e il recupero di Ferrante: quanto basta per vincere e convincere.
«Ritengo che il sistema di gioco che Heriberto Herrera fa applicare nella Juventus sia difficile da capire per un calciatore che non è abituato a praticarlo. Però, quando viene assimilato, è possibile offrire buoni risultati. Spero di riuscire a essere il goleador atteso dai tifosi bianconeri. Non sono un fuoriclasse, ma non mi demoralizzo facilmente e mi impegno sempre al massimo», afferma con onestà.
L’impresa fa rumore, e intanto la classifica continua a sorridere alla Juve, che si appiccica all’Inter racimolando preziose vittorie contro avversarie piccole e grandi. Il 13 novembre l’avversario non sarà magari blasonato ma è duretto senz’altro, è il Cagliari di Riva e Boninsegna, che comincia a trascinare all’entusiasmo tutta un’isola. Contro la Juve, comunque, i sardi si presentano con l’aureola di un primato che non viene dai suoi cannonieri, bensì da Reginato-portiere saracinesca, che da una vita non becca gol. E magari la storia continuerebbe se a un certo punto non ci pensasse proprio Depaoli, con una delle sue proverbiali bordate, a non più di un quarto d’ora dalla fine.
Chiaro che la fresca vena del cannoniere trova valido riscontro nello stato di grazia dell’intera squadra, ma altrettanto sicuro e che senza i suoi gol molte partite, anche le più importanti, finirebbero maluccio o decisamente male. Vedi vigilia di Natale, un freddo sabato pomeriggio, con Juventus e Milan a giocarsi il ruolo di anti-Inter, e con Castano natalizio anche troppo e in vena di regali. La sua autorete sta per aprire al Milan la strada per una vittoria clamorosa, quand’ecco che Depaoli fa una delle cose che gli riescono meglio: aspetta con calma al centro dell’area milanista il traversone da sinistra, e quando arriva sbatte dentro di collo destro, con inaudita violenza che lascia Barluzzi di sasso. È un gol che, nella sua essenzialità, fa storia per la freddezza e la sicurezza con cui viene realizzato. Il boato dello stadio pavesato di bianconero come da tempo non succedeva e il premio più bello per il campione che non cerca numeri funambolici ma solo concretezza. Sin troppo facile pronosticare rosei sviluppi di torneo per la Juve e per il suo centravanti: il pareggio di San Siro con l’Inter, sette giorni dopo, convince anche i più riottosi che la Juve è splendida realtà.
Ma non tutto può andare liscio; la jella può arrivare sotto varie forme, e il 22 gennaio, all’Olimpico, prende le sembianze di un arbitro (De Marchi) che ignora un sacrosanto gol messo a segno da Depaolii, sempre lui, alla traballante Lazio. Il pallone ha superato nettamente la linea del gol, lo confermano moviola televisiva e testimonianze neutrali, ma intanto resta la beffa del punto perso. Che in un campionato incertissimo come quello può essere decisivo.
Uno-due punti di vantaggio per l’Inter, ma la Juve resiste con fierezza, travolge la Fiorentina (4-1) con rete di Gigi nostro, che intanto si segnala per la poco simpatica abitudine di sbagliare rigori: anche con i viola il suo tiro dal dischetto, sullo zero a zero, è stato facile preda del portiere che ha respinto, e buon per la Juve che Del Sol appostato ha potuto riprendere e perfezionare in rete.
Il finale di stagione segna per Depaoli una lieve flessione di rendimento, e allora Heriberto dà via libera a Zigoni, ma di Gigi c’è Comunque bisogno, e le sue prestazioni, coronate da otto reti in 26 occasioni, gli garantiscono una conferma senza discussioni: lo scudetto numero tredici è stato in buona parte merito dei suoi gol.
«Avremmo dovuto vincere con un distacco maggiore; se non mi fosse stata negata quella sacrosanta rete contro la Lazio, quasi certamente avrei avuto la tranquillità necessaria per non fallire successivamente il rigore con l’Atalanta. Sono fattori che si collegano, questi», dice nella festa scudetto.
L’anno dopo, del resto, la squadra si presenta confermata in blocco, salvo gli inserimenti di valide pedine di ricambio (Volpi e Simoni), indispensabili per affrontare con mezzi adeguati la Coppa Campioni. Lo scudetto sulle maglie viene inaugurato in allegria, e Depaoli segna al Mantova, che ha appena ceduto Zoff, un altro dei suoi gol-proiettili, stavolta con sberla in corsa angolatissima. Purtroppo, non è sempre festa per i bianconeri, che in Campionato sono ben più sorvegliati dell’anno prima, e che ogni tanto steccano partite importanti pensando alla Coppa. Così si perde contro il Torino e anche Roma e Cagliari hanno buon gioco a sottrarre punti: Depaoli c’è e non c’è, l’autunno prima era stato più valido, ma niente paura, si rifarà con l’inverno. Dopo aver segnato ai suoi ex-compagni del Brescia il gol decisivo, Gigi chiude il ’67 con una prestazione di alto livello, coronata dalla rete più bella segnata nei due campionati bianconeri. Si gioca Juve-Inter, e nonostante San Silvestro proponga alternative allettanti il Comunale è pieno. Primo tempo equilibratissimo, segna Leoncini e replica Domenghini. Ma la ripresa è tutta bianconera, e il gol di Depaoli spalanca le porte di un successo di prestigio: Gigi riceve da Zigoni appena fuori dell’area e fa tutto da solo, liberandosi prima di Landini e poi di Facchetti e infine concludendo al volo sul portiere in uscita disperata. È la felice conferma di un uomo talvolta criticato ingiustamente per la sua scarsa mobilità: certo, Depaoli non è la stella nascente Pietruzzu Anastasi, e il confronto diretto con il ragazzo che gioca nel Varese è pure impari per la Juve, stanca delle fatiche di Coppa. La tripletta di Anastasi serve però a far mugugnare i tifosi, che vogliono sempre gente nuova, e per Gigi le successive partite diventano sempre più difficili.
«Gigi è sereno, nonostante lo scorso anno sia stato un po’ maltrattato dopo l’incidente. Il pubblico è incomprensivo in certi casi: è pronto a portare alle stelle i propri idoli e poi a calpestarli appena ne trova di nuovi. Mio marito non vuole che io parli così, ma non è giusto. Lo scorso campionato fin che Gigi è stato in squadra la Juventus non ha mai perduto; poi si è fatto male e ci sono stati anche quelli che hanno detto che la squadra guadagnava senza di lui. Quando è rientrato è stato accolto, a dir poco, ingenerosamente. Ma si era fatto male giocando, mica andando a ballare. Lo so che non si dovrebbero ascoltare le chiacchiere, ma fanno dispiacere. Se proprio non vogliono parlare bene di Gigi non ne parlino affatto, lo lascino in pace. Siano obiettivi: si è sempre dato da fare, si è sempre tenuto in forma anche quando non giocava. Non ha mai preteso di essere considerato quello che non è; fare la riserva non fa piacere a nessuno, ma lui non si è mai lamentato. Ritengo che mio marito meriti più rispetto. Sbaglio a parlare così?». La signora Depaoli difende il marito.
«È centravanti dal tiro folgorante – scrive Piero Molino su “Hurrà Juventus” – nel Brescia ha vissuto il periodo di gloria. Tutto il gioco offensivo gravitava su di lui, i palloni gli piovevano da ogni parte. I suoi tiri improvvisi, fortissimi, se azzeccati non perdonano. Anche nella Juventus ha avuto una parte di gloria, una parte soltanto, perché nel grande organismo si diventa rotella.  Non è di tutti adattarsi al movimento che spersonalizza e fa del giocatore una parte del tutto specie per un centravanti che si ritiene l’uomo goal. Traspedini e Combin, a loro tempo, hanno avvertito a più riprese che nel gioco di Herrera il centravanti è una pedina del gioco. L’hanno capito, ma non hanno saputo o potuto adattarsi a quel gioco che in fondo esige il sacrificio della personalità. Depaoli ha dimostrato di adeguarsi, non sappiamo con quanto gradimento, e non gli mancata l’occasione per la castagna che lascia secchi i portieri avversari, ma non è stato continuo. La polemica artatamente suscitata da certi giornalisti milanesi, che pure al tempo del Brescia lo avevano esaltato, gli ha tolto un po’ di sicurezza in sé. Si aggiunga che il giocatore è un modesto, si classifica apertamente modesto e ciò a nostro parere, agisce nel suo inconscio e in uno con la vita dura resagli da quella stampa ha finito per nuocere al suo rendimento. Su con la vita Depaoli».
E dire che di reti riesce a segnarne ancora, chiudendo la stagione con l’identico bottino del torneo precedente, otto, in ventuno partite. Ma che ci volete fare, ormai, come centravanti della Juve ha fatto il suo tempo: la società programma a distanza, deve arrivare gente nuova. Arriva Anastasi, i tifosi sono contenti, e i risultati daranno loro piena ragione. Per Depaoli, che torna al Brescia con qualche rimpianto, il ricordo di due ottimi campionati con qualche impennata da fuoriclasse.

RENATO TAVELLA
Dalla lombarda Brescia, con la fama del bomber, era giunto Virginio Depaoli. Centravanti risorgimentale. Vale a dire un attaccante che caricava il fucile e sparava come fosse un cecchino, senza mai innestare la baionetta allo schioppo e partire all’arma bianca. Opportunista, era un asso nel girare a rete di mezzo collo i palloni vaganti che sembravano traversare sperduti l’area di rigore. Rifacendosi al gioco del biliardo (quando ancora comprendeva le sei buche di antica memoria) diversi critici hanno sostenuto che realizzava i goal di possesso. Uno dei tanti neologismi coniati dalla letteratura sportiva per significare spedire in buca la palla avversa con un mirato e forte tiro.
Ma gioca alla goriziana o all’italiana, il bravo Depaoli? A Pavia, dov’è nato, il biliardo era sicuro fra i passatempi preferiti e lui, forse, del gioco aveva appreso con bella proprietà proprio quel colpo di stecca detto di possesso. Ma ignorava quasi del tutto le giocate di sacrificio e quelle di fino. Vagava sul tappeto d’area con il fucile in spalla, aspettando di vedere giungere in volo una preda. Dalla brughiera Cina e Del Sol snidavano i volatili e glieli alzavano in aria. Era allora che Depaoli dava di mano alla doppietta e ci provava: «È un bravo cacciatore di provincia», mormorava, mai contenta, quella cinica tribuna centrale con fare un po’ snob.

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